
L’8 e il 9 Giugno ci sarà il referendum su 5 quesiti che riguardano i licenziamenti senza giusta causa, la precarietà, la sicurezza sul lavoro e la cittadinanza per i lavoratori immigrati.
Sarà un referendum abrogativo. Sarà necessario il quorum e sarà necessario votare SÌ per dire NO.
Ciò che faremo è di andare a votare e dire 5 volte SÌ. Questo è il dato di fatto.
Però riteniamo utile costruirci sopra un ragionamento critico.
Quando si parla di “diritti” in realtà stiamo parlando dei rapporti di forza generali tra le classi. I “diritti”, e quindi le leggi che li regolano, sono infatti una fotografia di tali rapporti di forza. Essi sono in continuo movimento perché sono il riflesso del conflitto tra Capitale e Lavoro.
Dobbiamo anche precisare che il tema dei “diritti” è specifico del governo del Capitale quando questo assume la forma della democrazia, liberale o autoritaria a seconda della compressione dei diritti stessi.
In conclusione, dietro al “diritto”, sta la forza materiale delle classi subalterne di arginare il potere della classe borghese.
Questo è e sarà fin quando i rapporti di forza tra la classi non saranno ribaltati.
Come la storia ci dimostra non esistono “diritti acquisiti”. Le conquiste di una fase infatti possono essere attaccate e perse in fasi successive. Anche oggi stiamo vivendo questo, basti pensare al Decreto sicurezza.
Per noi la via maestra per modificare i rapporti di forza, e quindi ad oggi conquistare “nuovi diritti”, è la lotta.
Quindi ci chiediamo ogni volta come, ogni nostra azione, ogni strumento che mettiamo in campo, stia in relazione alla lotta stessa: se ne può agevolare la crescita, se la può mettere in discussione o addirittura ipotecare.
Parliamoci chiaro e oltre gli slogan. Il referendum, e il voto più generale, non sono la rivolta. Anzi, usare uno slogan come questo rappresenta un livello di arretramento culturale e politico: esso implica il rifiuto di ogni pratica che esca dalla legalità borghese.
Il referendum può essere uno strumento di cui, considerate determinate circostanze e variabili, la lotta si dota per segnare il culmine di una mobilitazione e scattare una “nuova fotografia” dei rapporti di forza. Ciò significa anche la capacità di mettere a verifica la nostra forza materiale, nel caso la classe al potere non dia seguito all’esito del voto popolare.
Il referendum non è uno strumento neutro.
Non lascia invariate le forze in campo: quelle della lotta, quelle del suo contenimento e quelle più marcatamente reazionarie.
Un referendum già a partire dal suo annuncio, passando per la sua costruzione e fino all’esito del voto, entra in dialettica con la lotta determinandone passaggi e scelte.
Se andassimo ad un’analisi più approfondita dei referendum del 1985 sulla scala mobile, del 2003 sull’estensione dell’articolo 18 ai lavoratori delle imprese sotto i 15 dipendenti e del 2011 su acqua e nucleare avremmo una restituzione dei vari aspetti di cui stiamo parlando.
Ora torniamo a concentrarci sul referendum dell’8 e 9 Giugno.
Questo referendum arriva in un momento in cui non vediamo una lotta di massa svilupparsi sui temi toccati dal referendum.
Tantomeno l’obiettivo di raggiungere il quorum è stato l’innesco di mobilitazione a partire dai posti di lavoro.
Giusta la denuncia sulla censura del referendum, ma rimane fine a stessa senza il tentativo di mettere in campo un’azione di lotta volta a romperla: non ci sono stati scioperi, picchetti e assemblee sui posti di lavoro che si contrapponessero all’oscuramento mediatico del referendum.
Arrivare al lancio di un referendum ritenendo che lo Stato e i suoi organi di informazione sia neutrali è, nella migliore delle ipotesi, dilettantismo.
Facendo ipotesi peggiori invece pensiamo che la scelta di lanciare questo referendum sia attinente alla necessità di stabilire degli equilibri all’interno della sinistra istituzionale e che quindi, sulla pelle dei lavoratori, si giochi il riposizionamento di una dirigenza sindacale.
Ci sembra un’azione molto simile alla promozione di pacchetti di sciopero di 24 ore che poi vengono “diluiti” in decine di scioperi settoriali e territoriali con la formula delle fatidiche “2 ore a fine turno” alle quali semmai solo qualche RSU aggancerà una propria proclamazione che copra l’intera giornata.
Questo referendum quindi non si cala in un contesto di lotta. Non innesca alcuno slancio alla lotta. Anche se contro ogni previsione dovesse raggiungere il quorum con la vittoria del SÌ, ad oggi non poggia su una massa critica e una forza materiale capace di esigerne l’applicazione nel caso il governo vada a diritto senza tenerne conto.
In ogni caso, quest’ultima sarebbe l’ipotesi migliore perché almeno lascerebbe aperta la porta alla lotta affinché i temi dei 5 quesiti non vengano definitivamente derubricati con la legittimazione del “non voto popolare”.
Almeno noi viviamo questo referendum come un’imposizione che cade sulle nostre teste.
Allo stesso tempo sarebbe un errore se per questo facessimo finta che questo referendum non esistesse. Ci sarà e segnerà un punto al di là della nostra posizione.
Per questa ragione torniamo sull’attacco di questo comunicato: andremo a votare 5 SÌ ed è ciò che dovrebbero fare tutti i lavoratori e le lavoratrici per esigere condizioni di vita e di lavoro, presenti e future, migliori di quelle di oggi.